Se da un lato la sinestesia quale fenomeno psicofisico in sé appare non essere stato particolarmente studiato in relazione all'architettura e alla percezione spaziale, non mancano gli studi su quest'ultima e sulle sue componenti irrazionali. Senza andare troppo in là, visto che il tema rischia da un momento all'altro di aprirsi e diventare ingestibile, andremo per ora alla ricerca di quei sintomi elementari che ci confermano l'esistenza di una soggettività irrazionale nella percezione spaziale; come dicevo, lo faremo non per tentare di dimostrarlo o di indagarne i meccanismi più reconditi, ma per porre alcune basi su cui meglio elaborare il nostro tema principale.
Ludovico Quaroni immagina in "Progettare un edificio" (Mazzotta, 1977) un'esperienza surreale per descrivere la sensazione di spazio, molto suggestiva, che riporterò di seguito:
Immagino di trovarmi davanti, su un terreno piano, due cubi dell'apparente misura di sei metri di lato. Ma si tratta di due cubi astratti, chiusi, senza qualità di superficie, senza spessore, senza colore, come in un quadro del periodo surrealista di De Chirico: lo stesso terreno è astratto, incorporeo come quello di un palcoscenico, e il cielo è inesistente, nero opaco. La luce ha una precisa inclinazione, tanto che alcune facce sono illuminate, altre in ombra, altre ancora in penombra, e l'ombra di un cubo investe l'altro, ma non vedo la fonte della luce.
Sono cubi leggeri, che con una sola mano posso spostare: ed ecco che ne vengono a me, a seconda della posizione reciproca dei due solidi, sensazioni spaziali diverse: ora sono paralleli, quasi accostati, e posti sulla stessa linea; ora sono più distanti e posso passare fra i due, e la sensazione rimane statica, perché viene mantenuto l'allineamento e quindi il parallelismo, anzi l'apertura fra i due determina una simmetria che accentua l'equilibrio statico. Ma se uno di essi si muove, e girando su se stesso pone uno dei suoi spigoli verso il centro di una delle facce dell'altro, lasciando solo un paio di metri perché io possa passare, io lì in mezzo avrò una sensazione completamente diversa da quella di poco prima: avrò una sensazione spaziale fortemente dinamica e «acuta», ma questa sensazione diminuirà via via, se la distanza fra la faccia e lo spigolo aumenterà.
Supponiamo ora che mi sia possibile entrare in uno dei cubi, attraverso una porta al centro di una delle facce verticali. Visto, percepito dall'interno, il cubo è cosa completamente diversa dallo stesso visto, percepito dall'esterno. Si tratta di un'unica e sola figura geometrica: ma la geometria è un'astrazione mentre un cubo che io posso vedere da fuori o nel quale posso entrare è una realtà spaziale, anche se nel nostro caso le pareti, per l'ipotesi fatta, non hanno spessore, non hanno calore e la luce è immateriale, perché io potrei concretamente riprodurre, con spessori, colore e luci artificiali, l'effetto descritto.
All'interno la sensazione è statica, di perfetto equilibrio: le sei pareti uguali e quadrate, gli angoli uguali e retti, le facce, uguali nella immaterialità d'una luce diffusa, nella mancanza di articolazioni plastiche, di grana, di colore, sono appena percettibili. Tutto è troppo uguale, troppo fermo, immobile, morto e determina in me il desiderio di fuggire da questa mancanza di dialettica, di contrasti, di asimmetrie, di dinamicità. Ma mentre guadagno l'uscita mi trovo di fronte, a pochi passi, l'altro cubo, incombente e minaccioso, deciso, negli angoli ugualmente inclinati rispetto alla parete che sto attraversando, e mi caccerebbe indietro se non ci fosse avanti a me, della stessa dimensione della porta del primo cubo, un'apertura nel secondo, nell'angolo, che mi invita a entrare per superare rapidamente l'incertezza.
Entro: le dimensioni del secondo cubo sono le stesse del primo, ma la direzione nella quale mi muovo e lo percepisco entrando è quella diagonale, e ne risulta un effetto spaziale molto diverso, molto meno statico e indifferente, più dinamico ed esaltante.
Ma la luce diffusa e la mancanza di colore rimane, colla conseguenza di uno spazio opaco, sordo poco percepibile. Ma improvvisamente le pareti si cominciano ad accendere di colore: il soffitto si fa più sordo ancora, precisando questa sua qualità con un nero intenso, mentre il pavimento si rischiara fino al bianco luminoso e le pareti si definiscono cromaticamente, tutte di rosso puro, vivo, violenti: l'effetto spaziale dinamico diminuisce per la centralità della prospettiva chiarita dal colore, anche se non cambia l'effetto esaltante. ma tutto dura pochi istanti, e i colori cambiano ancora: ora le sei facce del cubo sono tutte diverse, una viola-rosso una turchese, una blu scuro e luminoso, una verde smeraldo chiaro, una verde marcio, una grigio chiaro. Al senso di esaltazione subentra quello dell'eleganza composta, mentre l'effetto dinamico ritorna rinviorito, colla distruzione della simmetria, per effetto dello scompenso fra l'intensità e la qualità dei colori. Dunque il colore contribuisce alla costruzione dell'effetto spaziale.
Quando esco, al posto dell'altro cubo trovo invece tre cilindri, apparentemente dello stesso diametro e della stessa altezza, ugualmente distanti fra loro, simmetricamente disposti rispetto alla diagolane del cubo, cioà rispetto alla direttrice del mio movimento: ne esce un senso riposante d'armonia che tuttavia mi impedisce di restar fermo, e mi spinge a entrare fra le curve sfuggenti. Ma non appena ho varcato lo spazio stretto fra il cilindro di sinistra e quello di fondo mi si presentano molti altri cilindri, uno immenso e poco convesso, tanto è grande il suo raggio di curvatura, gli altri di vari diametri e altezze, posti tutti a distanze molto variabili fra loro: la vista, oltre i cilindri più vicini, si perde, su un grande spazio in fondo al quale un semicilindro che presenta il lato concavo sembra raccogliere e chiudere, enorme com'è, questo paesaggio di solidi curvi. Seguitando la mia promenade architecturale (Le Corbusier) scivolo lungo la parete di un cilindro posto sulla sinistra, per poi lasciarla per quella d'un altro, posto a destra un poco più indietro, attratto cioè da una curva e poi, senza soluzione di continuità, dalla sua controcurva: un percorso a esse.
Ma ecco un cilindro molto più grande con una porta che mi attrae e mi invita: il mio cammino continua, ma in modo opposto al precedente. Mentre prima seguivo, attratto dal muro, una superficie convessa, ora sono costretto a seguire, ancora attratto dalla stessa massa muraria, una superficie concava, con un effetto spaziale completamente diverso: lo stesso comportamento istintivo mi fa preferire l'appoggio del muro all'incognita del vuoto, ma agisce in modo opposto all'esterno e all'interno del cilindro.
A un tratto il cilindro sembra che si dilat, che diventi più grande: perdo il senso della curvatura e il mio andare subisce un rallentamento, fin quasi a trovarmi indifferente fra l'arrestarmi, proseguire o cambiare direzione, forse verso il centro. E vedo che le pareti, fino a ora verticali e aperte sul cielo, si piegano a curvarsi e a chiudersi verso il centro, fino a lasciare un solo unico occhio per la luce del cielo: un raggio di sole attraversa diagonalmente l'invaso, illuminando il pulviscolo atmosferico e rendendolo così visibile.