sabato 21 aprile 2007

Il tema di rilievo: la città irrisolta e i segni

L'accavallarsi delle cose da fare in ambiti extrauniversitari e soprattutto l'entrata a regime dei corsi mi hanno prevedibilmente distolto dal buon proposito di tenere aggiornato questo diario. Cercherò quindi di riassumere le novità avvenute in questi ultimi venti giorni materia per materia.

Il corso di rilievo, di cui avevo già parlato per l'impostazione sperimentale ed alternativa, è entrato nel vivo. Abbiamo scelto dei temi su cui lavorare, singolarmente o a gruppi, e la cosa non è stata facile. L'obiettivo è quello di "rilevare la trasformazione", come dice il professore, andando a cercarla nei luoghi urbani "irrisolti", dove è evidente una stratificazione spontanea carica di suggestioni e dove i segni preludono a nuove trasformazioni, magari ispirate proprio alla feconda casualità generatasi; l'obiettivo del rilievo dovrebbe infatti essere proprio l'intervento sulla base dei segni estrapolati. Questi requisiti sono stati interpretati da molti come le caratteristiche di città periferica intorno a resti archeologici oppure come agglomerati di baracche: non saprei dire se si tratti di semplificazioni o se effettivamente le cose coincidano.
La difficoltà nella ricerca dei temi per il corso (qualcuno ha dovuto tentare anche tre o quattro volte) mi è sembrata paradossale: come mai questa metodologia sperimentale, che nelle intenzioni dovrebbe imporsi come nuovo approccio al recupero della città irrisolta, pare applicabile solo ad un ristretto numero di situazioni? Non dovrebbe essere applicabile, per sua natura e finalità, ad un qualsiasi brano di periferia metropolitana? Non sono riuscito a trovare una risposta convincente a questa domanda, che per ora lascio aperta in attesa di poterla riprendere con le idee più chiare.
Per ora non mi preoccupo più di tanto di eventuali lacune nell'impostazione teorica dell'operazione che mi appresterò a fare, proprio confortato dalla richiesta del professore di inventività e partecipazione attiva alla definizione stessa dei metodi di lavoro. D'altro canto, questa mancanza di manualistica di riferimento impone di iniziare subito il lavoro senza attendere ulteriori indicazioni.

Il tema che ho scelto e presentato è un nodo urbano piuttosto aggrovigliato ed affascinante: è un punto che segna in qualche modo il passaggio dalla città centrale e storica alla periferia, e dove tre assi viari di notevole importanza si incrociano a più livelli e in più epoche storiche. Al di sotto di questo complicato nodo si celano dei ruderi romani, che qualche turista si arrischia ad andare a visitare nonostante la posizione decisamente infelice; a fianco invece giace un casale piuttosto articolato, che ingloba muri e fondazioni romani, medievali, ottocenteschi ed è tuttora modificato con lamiere, vetrate e altre addizioni spontanee legate al ristorante in esso contenuto. Nei pressi di questo nodo, fronti di baracche e arredo ferroviario e stradale suggestivo, fuori scala, mal ridotto; tracce di fioriere in cemento in posizioni inaspettate; persino irrigatori per il prato nel verde di risulta lungo una discesa.
Una volta assunta la mentalità adatta, la situazione risulta persino affascinante. Gli elementi che interagiscono in queste poche decine di metri assumono il carattere di volumi ed assi mischiati a varie quote come una composizione neoplasticista; lo scenario urbano sembra un palcoscenico sintetico che inscena il dialogo sordo tra la città archeologica, la periferia, il traffico veloce e noncurante, l'azione maldestra dell'uomo che interviene quasi solo per lasciare casuali tracce. Il tutto però -in questo preciso luogo s'intenda- a seguito di un'evoluzione storica del tutto lineare, leggibile dai documenti, in cui ogni singolo elemento ha fatto la sua comparsa ad un certo punto.
Il tema è stato approvato dagli assistenti del professore, che purtroppo proprio quel giorno non era presente. Mi sarebbe piaciuto avere un commento, anche per verificare se ho capito appieno la sua visione teorica: per ora sono convinto che il tema risponda bene ai requisiti e possieda le caratteristiche adatte al lavoro che si dovrà svolgere. Non ho ancora iniziato, ma nei prossimi giorni dovrò sicuramente cercare almeno le carte storiche; ne parlerò a tempo debito.

venerdì 30 marzo 2007

Promenade synesthetique

Come annunciato alcuni giorni fa, in questo diario si cercherà di approfondire il tema della sinestesia in architettura. È una ricerca i cui esiti si scopriranno più avanti: finché il tema appare interessante andremo avanti cercando di raccogliere indizi e di ragionarci su.

Se da un lato la sinestesia quale fenomeno psicofisico in sé appare non essere stato particolarmente studiato in relazione all'architettura e alla percezione spaziale, non mancano gli studi su quest'ultima e sulle sue componenti irrazionali. Senza andare troppo in là, visto che il tema rischia da un momento all'altro di aprirsi e diventare ingestibile, andremo per ora alla ricerca di quei sintomi elementari che ci confermano l'esistenza di una soggettività irrazionale nella percezione spaziale; come dicevo, lo faremo non per tentare di dimostrarlo o di indagarne i meccanismi più reconditi, ma per porre alcune basi su cui meglio elaborare il nostro tema principale.

Ludovico Quaroni immagina in "Progettare un edificio" (Mazzotta, 1977) un'esperienza surreale per descrivere la sensazione di spazio, molto suggestiva, che riporterò di seguito:

Immagino di trovarmi davanti, su un terreno piano, due cubi dell'apparente misura di sei metri di lato. Ma si tratta di due cubi astratti, chiusi, senza qualità di superficie, senza spessore, senza colore, come in un quadro del periodo surrealista di De Chirico: lo stesso terreno è astratto, incorporeo come quello di un palcoscenico, e il cielo è inesistente, nero opaco. La luce ha una precisa inclinazione, tanto che alcune facce sono illuminate, altre in ombra, altre ancora in penombra, e l'ombra di un cubo investe l'altro, ma non vedo la fonte della luce.
Sono cubi leggeri, che con una sola mano posso spostare: ed ecco che ne vengono a me, a seconda della posizione reciproca dei due solidi, sensazioni spaziali diverse: ora sono paralleli, quasi accostati, e posti sulla stessa linea; ora sono più distanti e posso passare fra i due, e la sensazione rimane statica, perché viene mantenuto l'allineamento e quindi il parallelismo, anzi l'apertura fra i due determina una simmetria che accentua l'equilibrio statico. Ma se uno di essi si muove, e girando su se stesso pone uno dei suoi spigoli verso il centro di una delle facce dell'altro, lasciando solo un paio di metri perché io possa passare, io lì in mezzo avrò una sensazione completamente diversa da quella di poco prima: avrò una sensazione spaziale fortemente dinamica e «acuta», ma questa sensazione diminuirà via via, se la distanza fra la faccia e lo spigolo aumenterà.
Supponiamo ora che mi sia possibile entrare in uno dei cubi, attraverso una porta al centro di una delle facce verticali. Visto, percepito dall'interno, il cubo è cosa completamente diversa dallo stesso visto, percepito dall'esterno. Si tratta di un'unica e sola figura geometrica: ma la geometria è un'astrazione mentre un cubo che io posso vedere da fuori o nel quale posso entrare è una realtà spaziale, anche se nel nostro caso le pareti, per l'ipotesi fatta, non hanno spessore, non hanno calore e la luce è immateriale, perché io potrei concretamente riprodurre, con spessori, colore e luci artificiali, l'effetto descritto.
All'interno la sensazione è statica, di perfetto equilibrio: le sei pareti uguali e quadrate, gli angoli uguali e retti, le facce, uguali nella immaterialità d'una luce diffusa, nella mancanza di articolazioni plastiche, di grana, di colore, sono appena percettibili. Tutto è troppo uguale, troppo fermo, immobile, morto e determina in me il desiderio di fuggire da questa mancanza di dialettica, di contrasti, di asimmetrie, di dinamicità. Ma mentre guadagno l'uscita mi trovo di fronte, a pochi passi, l'altro cubo, incombente e minaccioso, deciso, negli angoli ugualmente inclinati rispetto alla parete che sto attraversando, e mi caccerebbe indietro se non ci fosse avanti a me, della stessa dimensione della porta del primo cubo, un'apertura nel secondo, nell'angolo, che mi invita a entrare per superare rapidamente l'incertezza.
Entro: le dimensioni del secondo cubo sono le stesse del primo, ma la direzione nella quale mi muovo e lo percepisco entrando è quella diagonale, e ne risulta un effetto spaziale molto diverso, molto meno statico e indifferente, più dinamico ed esaltante.
Ma la luce diffusa e la mancanza di colore rimane, colla conseguenza di uno spazio opaco, sordo poco percepibile. Ma improvvisamente le pareti si cominciano ad accendere di colore: il soffitto si fa più sordo ancora, precisando questa sua qualità con un nero intenso, mentre il pavimento si rischiara fino al bianco luminoso e le pareti si definiscono cromaticamente, tutte di rosso puro, vivo, violenti: l'effetto spaziale dinamico diminuisce per la centralità della prospettiva chiarita dal colore, anche se non cambia l'effetto esaltante. ma tutto dura pochi istanti, e i colori cambiano ancora: ora le sei facce del cubo sono tutte diverse, una viola-rosso una turchese, una blu scuro e luminoso, una verde smeraldo chiaro, una verde marcio, una grigio chiaro. Al senso di esaltazione subentra quello dell'eleganza composta, mentre l'effetto dinamico ritorna rinviorito, colla distruzione della simmetria, per effetto dello scompenso fra l'intensità e la qualità dei colori. Dunque il colore contribuisce alla costruzione dell'effetto spaziale.
Quando esco, al posto dell'altro cubo trovo invece tre cilindri, apparentemente dello stesso diametro e della stessa altezza, ugualmente distanti fra loro, simmetricamente disposti rispetto alla diagolane del cubo, cioà rispetto alla direttrice del mio movimento: ne esce un senso riposante d'armonia che tuttavia mi impedisce di restar fermo, e mi spinge a entrare fra le curve sfuggenti. Ma non appena ho varcato lo spazio stretto fra il cilindro di sinistra e quello di fondo mi si presentano molti altri cilindri, uno immenso e poco convesso, tanto è grande il suo raggio di curvatura, gli altri di vari diametri e altezze, posti tutti a distanze molto variabili fra loro: la vista, oltre i cilindri più vicini, si perde, su un grande spazio in fondo al quale un semicilindro che presenta il lato concavo sembra raccogliere e chiudere, enorme com'è, questo paesaggio di solidi curvi. Seguitando la mia promenade architecturale (Le Corbusier) scivolo lungo la parete di un cilindro posto sulla sinistra, per poi lasciarla per quella d'un altro, posto a destra un poco più indietro, attratto cioè da una curva e poi, senza soluzione di continuità, dalla sua controcurva: un percorso a esse.
Ma ecco un cilindro molto più grande con una porta che mi attrae e mi invita: il mio cammino continua, ma in modo opposto al precedente. Mentre prima seguivo, attratto dal muro, una superficie convessa, ora sono costretto a seguire, ancora attratto dalla stessa massa muraria, una superficie concava, con un effetto spaziale completamente diverso: lo stesso comportamento istintivo mi fa preferire l'appoggio del muro all'incognita del vuoto, ma agisce in modo opposto all'esterno e all'interno del cilindro.
A un tratto il cilindro sembra che si dilat, che diventi più grande: perdo il senso della curvatura e il mio andare subisce un rallentamento, fin quasi a trovarmi indifferente fra l'arrestarmi, proseguire o cambiare direzione, forse verso il centro. E vedo che le pareti, fino a ora verticali e aperte sul cielo, si piegano a curvarsi e a chiudersi verso il centro, fino a lasciare un solo unico occhio per la luce del cielo: un raggio di sole attraversa diagonalmente l'invaso, illuminando il pulviscolo atmosferico e rendendolo così visibile.

giovedì 29 marzo 2007

La serliana e la girola

Il tema di restauro è stato approvato dai professori. Il gioviale professore anziano mi ha chiesto per tre volte se me la sentissi di affrontarlo da solo, visto che la condizione ipogea e la complessità del progetto di rifunzionalizzazione comportano sicuramente un lavoro impegnativo: per tre volte ho risposto sì, ci mancherebbe.

Sempre ieri, lezione di storia moderna con un'ospite spagnola: ottimo italiano, ottimo umorismo e lezione abbastanza interessante sull'architettura regia spagnola del Cinquecento. Le uniche parole che davvero mi sfuggivano erano serliana e girola: scopro ora grazie a Wikipedia che la serliana è una sequenza di aperture nell'ordine architettonico (forse avrei dovuto saperlo) e che la girola è in spagnolo il deambulatorio degli edifici templari.

Ieri e oggi, laboratorio di progettazione: a breve parlerò più diffusamente del tema da sviluppare da qui a giugno. Il corso comunque appare per ora ben organizzato e guidato.

martedì 27 marzo 2007

Il tema di restauro

Domani probabilmente riuscirò a presentare ai professori il tema che ho scelto per il laboratorio di restauro. Spero che andrà bene: sono dei sotterranei. (Dei sotterranei illustri, però.)

L'evoluzionismo

Oggi c'è stata la prima lezione ufficiale del corso di rilievo.
Il professore dall'elegante portamento ha espresso la sua particolare concezione del rilievo architettonico, distinguendo quello "tradizionale" rivolto ai monumenti e agli edifici storicamente consolidati da quello nuovo, ancora in parte da scoprirsi, rivolto alle architetture moderne, recenti, contemporanee e future. In questi ultimi casi gli strumenti per il rilievo non sono tanto piante, prospetti, sezioni e trilaterazioni ma letture dei rapporti e soprattutto delle trasformazioni. Si deve documentare il divenire, e andare a cercare questo fecondo movimento laddove gli spazi non sono ancora risolti e dove magari l'azione umana nel tempo ha già stratificato più azioni plastiche. Del resto, dice l'altero professore, è proprio da queste situazioni che molti architetti contemporanei traggono ispirazione per alcuni morfemi apparentemente casuali (questa osservazione mi ricorda gli accostamenti fotografici che faceva il professore di storia dell'architettura contemporanea tra architetture decostruttiviste e deragliamenti ferroviari).
In particolare il professore, pur conscio che taluni considerano "devianze" le sue sperimentazioni, ha espresso il suo riferimento filosofico inedito: l'evoluzionismo in architettura. Egli sostiene che le architetture quali stratificazioni dell'attività umana nel tempo si evolvono proprio secondo i principi darwiniani, e in particolare secondo quanto sostengono le tesi adattamentiste che sull'evoluzionismo si basano.

domenica 25 marzo 2007

Esiste la sinestesia in architettura?

La sinestesia, dal greco συν (attraverso) e αισθησίσ (percezione), è uno stato psicofisico in cui il soggetto avverte più percezioni sensoriali pur ricevendone fisicamente una sola: è un meccanismo inconscio di associazione di idee, o meglio, di associazione di stimoli percettivi. Ad esempio, si ha una sinestesia quando l'ascolto di una nota musicale evoca un colore, o quando la vista di un cibo in fotografia ne evoca l'odore o il sapore, o l'ascolto del rumore del mare ne evoca la frescura.
In musica la sinestesia è un espediente compositivo piuttosto studiato ed adoperato. Alexander Scriabin, compositore russo tardo-romantico ma anche grande sperimentatore, fu notoriamente molto interessato al rapporto tra colori e suoni: aveva realizzato un pianoforte con i tasti colorati di tinte diverse (il Do era rosso, il Re era giallo e così via) e componeva lasciandosi trascinare dagli accostamenti cromatici prima ancora che da quelli sonori. Nel '500 gli autori di madrigali ricorsero alla sinestesia per rappresentare sensazioni fisiche (in un noto esempio la parola "so/spira" è divisa in due da una pausa in modo da far sentire l'effetto fisico del sospiro); a questo proposito si considera la parola come un senso speciale, in quanto sinestetico per sua natura e anche per la frequente ambiguità semantica del discorso, che porta ad associare contemporaneamente ed involontariamente più significati.
Esiste poi una forma patologica di sinestesia, parente addirittura dell'autismo e di altre disfunzioni psichiche, come la dislessia o l'allochiria; l'approccio disciplinare allo studio del fenomeno sinestetico, riscoperto negli ultimi decenni dopo gli ultimi esperimenti risalenti al primo Novecento, è a cavallo tra la filosofia e la scienza neuropsichiatrica. Il caso teorico più noto, ancora aperto, è quello di un cieco che guarisce: può riconoscere con la vista gli oggetti che prima toccava?
La sinestesia, in forma più o meno patologica, è un espediente creativo riconosciuto da tanti artisti: famosi sinesteti furono Kandinsky, Nabokov, Duke Ellington, Rimksy-Korsakov.

Insomma, il tema si presenta interessante e vale la pena collegarlo al settore che c'interessa di più: esiste la sinestesia in architettura? L'esperienza spaziale è assimilabile ad una complessa percezione sensoriale? E se sì, questo sesto senso spaziale può provocare stati psicofisici tipicamente sinestetici? Quali strumenti ha l'architetto per stimolare questi effetti? Quanto incidono le componenti psicopercettive sulle grandi architetture monumentali, ad esempio quelle religiose?
Alla ricerca di risposte si dovrà tentare in questo diario di sviscerare ogni angolo della percezione emotiva irrazionale dello spazio. Un tema troppo impegnativo forse? Forse.

Riferimenti:
· Synesthesia and Artistic Experimentation
· Was Scriabin a Synaesthete?

Inizio

L'apertura di questo diario doveva coincidere, nelle intenzioni del suo estensore, con l'inizio del secondo semestre universitario. In realtà il protrarsi degli esami anche oltre l'inizio delle lezioni lo ha impedito e dunque si comincia solo ora, alla terza settimana; non è poi così grave visto che ancora non si è veramente entrati nel vivo delle materie.

Lo scopo di questo diario non è quello di fornire all'autore un passatempo - ché di passatempi davvero non ha bisogno - ma quello di consentire occasioni di riflessione e di oggettivazione (si può dire?) delle esperienze di formazione. Un quaderno di appunti, in sostanza, e un taccuino con i buoni propositi. Se ne sarà valsa la pena, specialmente in una situazione di generale mancanza di tempo, lo si potrà dire solo più avanti; in ogni caso forse una minima utilità la si può intravvedere sin da subito nel fatto che scrivere e riflettere sull'architettura e sugli studi in corso può essere un pretesto e uno stimolo per essere più concentrato e limitare le divagazioni - oh sì, molto facili.